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di Michela Rosati* – Pubblicato su Psicozoo, 2011

Alcune persone sono naturalmente portate a riconoscere la gentilezza degli altri nei loro confronti e a ringraziarli per questo. Altri invece non lo fanno quasi mai. Se ne dimenticano oppure si sentono in imbarazzo o temono di perdere il loro prestigio.

Qualche volta, quando il dono ricevuto è troppo grande e sentiamo di non poterlo ricambiare, si può persino provare rabbia o invidia nei confronti del nostro benefattore, piuttosto che un sentimento positivo.

In generale le attenzioni degli altri fanno piacere, così come sentirsi dire “grazie” quando siamo noi ad impegnarci per il nostro prossimo.

Capita spesso infatti che le persone restino profondamente ferite da una mancata riconoscenza esplicita e che per questo comincino a provare del risentimento.

Ricordo il caso di una donna che soffriva terribilmente, perché sebbene cercasse con ogni mezzo di gratificare la sorella minore, non veniva mai ringraziata per i suoi favori. Questo la faceva sentire delusa ed umiliata. Paradossalmente, mentre la riempiva di attenzioni, la disprezzava ogni giorno di più.

In seguito, quando ebbe modo di condividere i suoi sentimenti con la sorella, scoprì che quest’ultima – cosciente del gioco di potere instauratosi – avrebbe a volte sinceramente voluto dire grazie e ricambiare, ma temeva che un tale gesto le avrebbe fatto perdere il privilegio acquisito, riportandola nuovamente alla posizione di “seconda”, da cui tentava di emanciparsi.

Viceversa, in un’altra occasione ebbi modo di osservare che anche l’impossibilità di ringraziare può provocare un senso di tensione e frustrazione.

Un reduce cercò con tutte le sue forze l’uomo che, durante gli anni della guerra, gli aveva offerto un rifugio e salvato così la vita. Dopo lunghe e rocambolesche ricerche riuscì a ritrovare la sua famiglia, ma scoprì che il suo salvatore era già morto. L’idea di non poterlo più abbracciare, di non poterlo ringraziare fino alle lacrime, come aveva tante volte sognato, la consapevolezza che fosse morto senza sapere quanto in realtà gli fosse riconoscente lo rese irrimediabilmente triste e amareggiato.

Questi sono solo due esempi di quanto un semplice “grazie” possa fare la differenza nella vita delle persone.

Oggi molti studi confermano che l’orientamento alla gratitudine, cioè quella capacità di comprendere l’importanza del sostegno degli altri, unita all’abilità di comunicare questa riconoscenza, sia connesso al benessere psicologico.

Da un lato infatti la gratitudine ci fa sentire apprezzati, amati e benvoluti e questo non può che aumentare la stima che abbiamo di noi; dall’altro essa favorisce comportamenti prosociali, facendo sì che gli altri vengano percepiti come amichevoli e disponibili: diventa quindi più facile costruire reti sociali soddisfacenti.

Un utile esercizio per sviluppare l’attitudine alla riconoscenza è quello di tenere un “giornale della gratitudine”, come lo definisce S. Lyubomirsky, una specie di diario nel quale annotare le cose belle che vi capitano.

Per farlo scegliete un momento adatto durante la giornata, quando sapete di avere un po’ di tempo a disposizione per riflettere (in treno, a pranzo, prima di andare a dormire) e cominciate a pensare ad almeno tre o cinque cose per cui sentite di essere grati (il sorriso di vostro figlio, la prima neve, un sms inaspettato, l’invito di un amico, un progetto che avete portato a termine, l’odore buono della saponetta sul viso) e non dimenticatevi delle persone che si prendono cura di voi, che si sacrificano cercando di accontentarvi.

Esercitandovi costantemente, almeno una volta alla settimana, potreste cominciare a sentirvi davvero felici e positivi.

Diceva Melanie Klein, una delle voci più influenti nella storia della psicoanalisi, “Il sentimento di gratitudine è una delle espressioni più evidenti della capacità di amare. La gratitudine è un fattore essenziale per stabilire il rapporto con l’oggetto buono e per poter apprezzare la bontà degli altri e la propria”.

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