Pubblicato sul quotidiano “L’Opinione di Viterbo e Lazio Nord” del 08/05/2011
Erich Fromm ne “L’arte di amare” definiva l’amore materno come incondizionato: “La madre ama il suo bambino perché è la sua creatura e non perché abbia fatto qualcosa per meritarselo”. Ma appena qualche rigo sotto si affrettava a precisare che l’amore materno incondizionato al quale faceva riferimento era più un archetipo che un dato di fatto, giacché non tutte le madri amano in questo modo.
In effetti, il simbolo inviolabile dell’amore altruistico rimane il rapporto che la madre stabilisce con il neonato, il quale, completamente bisognoso di cure, sembra non restituirle nulla, se non la sua totale dipendenza da lei.
Alcune volte, tuttavia, le madri rimangono amorevoli e premurose solo fino a quando permane questa dipendenza, capace di soddisfare il bisogno della madre di avere uno scopo, un senso profondo ed epico della vita, soprattutto se la nascita del figlio è stata investita di aspettative circa il riempimento di vuoti esistenziali della madre stessa.
Ma il bambino deve crescere, perché questo è inevitabile e vitale. La madre dovrebbe quindi desiderare che il bambino si separi da lei, aspirando al sano sviluppo del figlio, stimolandone la progressiva autonomia, continuando ad amarlo generosamente anche dopo la separazione.
Nella relazione fra una madre e una figlia questo passaggio è, se vogliamo, ancora più delicato e complesso. Una mia giovane paziente raccontava tutto il suo disagio nel constatare come la madre le impedisse ogni forma di autonomia, accusandola di procurarle un grave dolore (anche fisico) ogni qualvolta la ragazza provava a ritagliarsi spazi e tempi che fossero solo suoi, nel tentativo di arginare l’intrusione materna. Il potente senso di colpa, che emergeva a seguito di tali comportamenti da parte della madre, scoraggiava di fatto la ragazza, che rinunciava al soddisfacimento dei suoi bisogni personali al fine di soddisfare la madre e salvare il rapporto con lei.
Nel recente lavoro del regista Darren Aronofsky, Il cigno nero, è possibile osservare proprio il fallimento del naturale processo di separazione dalla madre ed individuazione di se stesse e dei propri desideri ed aspirazioni. E’ l’estremo invischiamento emotivo che lega la protagonista, Nina, alla madre a generare un blocco nel suo sviluppo psicosessuale. La madre, Erica, non permette a sua figlia di essere un individuo separato, vede Nina come un riflesso di sé, qualcuno che esiste per le sue esigenze, qualcuno deputato a portare avanti la sua carriera di ballerina, conclusasi drasticamente a causa della nascita della figlia.
I confini sono violati, Erica segue la figlia nella stanza da bagno e nell’infantile cameretta, è praticamente onnipresente, anche durante il tentativo di autoerotismo di Nina. Nina non deve avere accesso alla sessualità e alla sensualità se non all’interno del rapporto madre-figlia, non deve integrare quella parte di sé che la porterebbe ad essere una grande etoile, perché il successo l’allontanerebbe da lei. Nina vive dunque come proseguimento della vita “interrotta” della madre, ad esclusivo giovamento della madre, la quale vorrebbe costringerla a non crescere, tarpandole letteralmente le ali, che invece spuntano, ogni notte, inevitabilmente, inesorabilmente, sotto la pelle della figlia.
Ovviamente il rapporto tra Nina ed Erica è devastato dalla psicopatologia delle protagoniste, ma pur senza arrivare ad estremi tanto drammatici, dobbiamo riconoscere che la fase di separazione fra madre e figlia è senza dubbio più complessa di quella fra madre e figlio.
Del resto anche la nota psicoanalista Margaret Mahler, parlando del processo di separazione-individuazione nei bambini, ammetteva che i maschi tendono a sganciarsi più facilmente dalla madre, iniziando a funzionare positivamente nel mondo, mentre le bambine rimangono imbrigliate più a lungo negli aspetti ambivalenti del rapporto. L’identità di genere quindi rafforza il legame madre-figlia, consentendo di norma una separazione meno agevole.
In qualche misura è dunque normale che le madri provino una certa difficoltà nell’amare incondizionatamente le loro figlie femmine quando queste cominciano a svincolarsi, perché è più facile proiettare sulla figlia desideri rimasti inespressi, è più forte la tentazione di considerarla quasi un prolungamento di se stesse, una seconda occasione per essere felici e soddisfatte nella vita.
Ed è più facile che le figlie si prestino non del tutto consapevolmente a queste richieste implicite della madre, al fine di ricevere amore, sentendosi però più “utili” che amate, insicure dal punto di vista affettivo.
Questa iniziale difficoltà può essere superata, senza pretese perfezionistiche, lasciando il tempo sia alla madre che alla figlia di ridefinire il rapporto, anche per mezzo di discussioni e successivi chiarimenti, comunicando le reciproche esigenze e rispettando i giusti confini e le graduali spinte all’autonomia che la crescita sempre comporta. Se invece madre e figlia tendono a provocare una fissità nella relazione, condizione che in genere suscita malessere in entrambe, allora potrebbe rendersi necessario inquadrare meglio il problema e cercare le possibili soluzioni con l’aiuto degli specialisti.