Pubblicato su TERNI Magazine Giugno-Luglio 2010
Alcuni vizi umani sono davvero molto attraenti: lussuria, gola, accidia. Mentre indugiamo in questo tipo di situazioni ci sentiamo terribilmente bene, motivo per cui è così difficile abbandonare il “peccato” e tornare sulla “retta via”. Ma c’è un vizio che rinuncia ad ogni piacevolezza ed è talmente doloroso da sperimentare, che si potrebbe scambiare per virtù (se non fosse che alla fine non si ottiene nulla di buono): l’invidia.
L’invidia è il profondo risentimento che si prova verso qualcuno che ha qualcosa che si desidera ma che a noi è negata (ricchezza, benessere, bellezza, una promozione, l’ammirazione dei pari, ecc.). E’ la sofferenza dovuta ad un confronto dal quale usciamo perdenti, in un ambito che per noi è importante.
Si tratta di un’emozione che pochi possono evitare ed alla quale nessuno aspira, perchè invidiare fa sentire piccoli e inferiori. Ma se tutti la provano, da ragazzi e anche da anziani, pochissimi la confessano, perché socialmente disapprovata: essere invidiosi significa in primo luogo ammettere la propria supposta inferiorità e, secondariamente, svelare l’intenzione di danneggiare l’altro in modo subdolo.
Non a caso il termine invidia deriva dal latino invidere, che significa appunto guardare in modo bieco (e quindi non a viso aperto) il successo dell’altro, nutrendo un’ostilità nascosta e un desiderio di privarlo di ciò che lo rende – appunto – invidiabile (magari denigrandolo alle spalle).
Generalmente si prova per persone che giudichiamo simili o almeno paragonabili: si invidia l’amica con il marito affettuoso e attento piuttosto che la principessa tal dei tali, così come si invidia il collega in piena forma piuttosto che l’atleta di fama mondiale.
Per invidiare qualcuno, insomma, è necessario che sia in un certo senso intorno a noi.
Ecco perché questo sentimento si sperimenta per la prima volta quasi sempre all’interno della famiglia.
Avere le stesse opportunità rende molto più doloroso il sentirsi inferiori rispetto ad un fratello o ad una sorella di successo, così come la disuguaglianza di opportunità, dovuta alle preferenze fatte dai genitori nei confronti di un figlio, può produrre nei fratelli invidia e gelosia. Quando i bambini si accorgono di avere fratelli e sorelle, la loro vita diventa dominata dalla morsa dell’invidia. “Perché quando litighiamo danno sempre ragione a lui?” “La sua pizza era più della mia!”.
I genitori dovrebbero porre particolare attenzione a fare le differenze, ma non le preferenze fra i figli, per evitare che sentimenti troppo intensi e troppo frequenti d’invidia e gelosia minino la loro serenità. L’invidia infatti è corrosiva e può rovinare la vita, il vantaggio dell’altro viene percepito come ingiusto, frustrante perché inarrivabile, e suscita la dolorosa sensazione di essere stati esclusi senza alcun riguardo da quella fetta di felicità.
Il dolore provocato dall’invidia è talmente reale che alcuni ricercatori giapponesi hanno dimostrato, mediante risonanza magnetica funzionale, che nei cervelli dei soggetti a cui era stata suscitata l’invidia aumentava l’attivazione dell’area legata all’elaborazione del dolore fisico o sociale.
Ma se è così dannatamente spiacevole, perché la proviamo?
Come tutte le emozioni, anche l’invidia ha una sua specifica funzione. Proprio perché così penosa, non può essere ignorata e quindi si presta ad essere un ottimo campanello d’allarme. Chiunque di noi abbia un appuntamento importante fissato per il mattino seguente, si accerta che la suoneria della sveglia non sia del tipo “uccellini in amore” ma piuttosto del tipo “martello pneumatico”, decisamente meno bucolica ma senza dubbio più efficace.
Con le emozioni funziona un po’ allo stesso modo. L’invidia è potentemente molesta perché dovrebbe segnalarci che siamo in una posizione svantaggiata e dovrebbe quindi spingerci a recuperare terreno, al fine di far cessare l’esperienza dolorosa. Alcuni studiosi ritengono che si sia sviluppata come aiuto interiore nella competizione per le risorse (cibo, partner sessuale, protezione ecc.), poiché anche nei gruppi umani la limitata disponibilità di risorse dipende dalla posizione del singolo all’interno del gruppo. Per cui, evolutivamente parlando, si sarebbe rivelata un beneficio: gli invidiosi, giudicando la loro felicità sulla base della posizione raggiunta rispetto agli altri individui del gruppo, avrebbero investito maggiori sforzi per raggiungere status e risorse, avvantaggiandosi nella selezione naturale.
Si può dunque distinguere fra invidia benigna ed invidia maligna.
L’invidia benigna spinge alla competizione e all’emulazione, cioè a darsi da fare, a lavorare sodo per ottenere il bene o il riconoscimento dato agli altri. In generale questa è una delle migliori strategie per evitare di rodersi: impegnarsi a fare di più (o ad avere di più, nella nostra società dei consumi) spesso risolve efficacemente l’invidia.
L’invidia maligna invece è il sentimento di chi cerca un modo per “abbassare” l’altro, spesso ricorrendo a manovre sleali. Oppure, senza arrivare a tanto, si può sperare che la sfortuna dell’altro giochi a nostro favore: se la persona vincente ha un problema, allora sarà costretta a “ridimensionarsi”, dandoci un tipo particolarmente piacevole di soddisfazione chiamata Schadenfreude. Così recita, in proposito, un detto danese che bene esemplifica il concetto: “La propria felicità dovrebbe essere preferita, ma anche la sfortuna di un altro non va affatto disprezzata”. E se tutto questo non dovesse bastare, si può sempre ricorrere alla svalutazione dell’altro o delle cose dell’altro, sottolineandone i lati negativi invece che enfatizzare il valore di ciò che l’altro possiede (e che noi non abbiamo): c’era una volta la volpe e l’uva…
Michela Rosati
Psicologa Psicoterapeuta
www.michelarosati.it
Bibliografia Breve
Hidehiko Takahashi et al., When Your Gain Is My Pain and Your Pain Is My Gain: Neural Correlates of Envy and Schadenfreude. Science 13 February 2009, Vol. 323. no. 5916, pp. 937 – 939
Richard Smith, Envy . Oxford University Press, 2008.
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